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25-05-2015 10:24:20 Il reato di tortura: sintesi dell'incontro

Si è tenuto a Brescia sabato 23 giugno 2015 il convegno sull'introduzione nell’ordinamento italiano del reato di tortura, organizzato dalla Camera penale della Lombardia Orientale.

Relatori di rilievo nazionale si sono succeduti al microfono per illustrare le problematiche attuali ed il milieu giuridico nel quale questo reato in fieri deve essere inserito.
L'avv. Eustacchio Porreca, Presidente della Camera penale della Lombardia Orientale, ha brevemente introdotto l'argomento ricordando come l’Italia, aderendo nel 1988 alla Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti siglata a New York nel 1984, si sia impegnata ad introdurre nel proprio ordinamento il reato di tortura, ad oggi non ancora previsto, e come la nota, recente sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (sent. Cestaro c. Italia relativa ai cosiddetti “fatti della scuola Diaz” durante il G8 di Genova) abbia stigmatizzato questa lacuna, che si spera possa essere presto colmata.
Il primo relatore a prendere la parola è stato il prof. Luciano Eusebi, che ha puntato la propria attenzione sulla carenza di una coerente ed efficace politica criminale, criticando il costante utilizzo del diritto penale, incentrato sulla pena detentiva, quale unico strumento di soluzione dei problemi, ed una sempre crescente produzione legislativa disorganica, frutto di emergenze e suggestionate spinte punitive. Al centro delle critiche del prof. Eusebi anche l’incuria del legislatore nella descrizione delle fattispecie e la tendenza ad aumentare le pene edittali (specie nel minimo, sottraendo al giudice una capacità ampia di adeguamento al caso concreto), tutti difetti che si riscontrano nella norma sul reato di tortura attualmente in discussione. In particolare, deve riscontrarsi l’assenza di qualsiasi previsione in materia di formazione delle forze di polizia (in una successiva integrazione del proprio intervento, ha aggiunto che sarebbe senz’altro necessario un rafforzamento delle sanzioni disciplinari).

Al pregevole intervento sistematico del prof. Eusebi ha fatto seguito quello dell'avv. Michele Passione, del Foro di Firenze, che ha preso le mosse dai due concetti speculari di dignità (parola presente nella Grundnorm del diritto tedesco ma che nel nostro ordinamento non si trova tra le basi del diritto penale) e indignazione, concentrando l’interesse sugli argomenti utilizzati dallo Stato italiano per difendersi a Strasburgo nella vicenda Cestaro:
1) l’imminenza dell’approvazione della norma che introduce il reato di tortura;
2) l’esistenza di una serie di norme penali che già punirebbero i fatti di tortura;
3) l’avvenuta ratifica da parte dell’Italia della convenzione ONU contro la tortura, che sarebbe self-executing.
Argomenti decisamente discutibili.
Il punto è che il Governo italiano non è mai stato sensibile al tema. Ora la sentenza Cestaro, purtroppo non ancora tradotta ufficialmente in italiano, impone al governo italiano di adeguare le proprie norme al rispetto delle più elementari regole di comportamento degli organi di polizia. La Corte EDU ha deplorato l’assenza di obblighi identificativi, emersa in relazione ai fatti di Genova, la mancanza di sanzioni disciplinari e le progressioni di carriera dei funzionari di polizia imputati per quei fatti. Bisogna constatare, ha aggiunto Passione, che a fronte di ciò la posizione delle forze dell’ordine – esplicitata anche recentemente nelle audizioni informali davanti alla Commissione Giustizia del Senato, si è risolta nel ritornello della necessità di poter “vincere una resistenza” (che, tuttavia, è cosa diversa dal torturare!). Pur salutando con favore le modifiche licenziate dalla Camera il 9 aprile u.s. (ad es. la previsione del dolo specifico e della punibilità anche della singola condotta), Passione ha concluso l’intervento segnalando i problemi derivanti dalla mancata previsione di condotte omissive, di un fondo per le vittime della tortura, di strumenti di formazione per le forze dell’ordine ed, infine, stigmatizzando la previsione, per i casi aggravati dall’evento morte, della pena dell’ergastolo, che non dovrebbe più avere diritto di cittadinanza tra le sanzioni penali.

Il dottor Enrico Zucca, sostituto procuratore generale presso la Corte d'Appello di Genova, ha preso la parola segnalando l'atteggiamento di apparente disinteresse mostrato dai magistrati su questo argomento. Nonostante i magistrati non abbiano solitamente remore a far sentire la propria voce sui più disparati argomenti, questo è del tutto negletto o, quelle poche volte che se ne parla, è affrontato dimostrando parzialità o carente informazione.
Il concetto di tortura è soggetto ad una rimozione: sintomatico il fatto che nei lavori preparatori e nei disegni di legge (ad esempio quelli del 2013) non si parli degli episodi di tortura che sono avvenuti in Italia, quale scintilla per un intervento legislativo. Definendo la tortura una vera e propria oscenità nello Stato di diritto, il dott. Zucca ha osservato che parlare di tortura “fa sempre male”, citando un interessante studio dell’università di Harvard sull’utilizzo del termine “tortura” da parte dei mass media americani tra i 1920 e il 2004 (nel 98% dei casi tale termine veniva utilizzato per definire la pratica del waterboarding) ed invece tra il 2004 e il 2008 (quando la pratica era stata segretamente autorizzata dal Governo: la percentuale dei casi in cui il waterboarding viene definito tortura precipita all’1-4%). Si tende, in sostanza, a rimuovere il problema.
Per prima cosa bisogna accettare il fatto che la tortura sia stata e sia praticata in Italia. Si deve ammettere che i fatti della Diaz, di Bolzaneto ed altri piccoli episodi di arresti illegali siano stati soltanto la punta dell'iceberg e che vi siano stati numerosi altri episodi, non occasionali, non di utilizzo della forza per vincere una resistenza, ma di uso della violenza su persone già vinte. Tutti episodi che non sono stati perseguiti, per sostanziale rinuncia all'esercizio dell'azione penale, visti i numeri e il tempo a disposizione. Fatti, si badi, spesso o quasi sempre oggetto di azioni di copertura mediante falsificazione dei verbali di polizia. Una copertura che pare essere in generale, costantemente tollerata è che, fortunatamente, per i fatti di Genova è emersa chiaramente.
È sintomatico che il legislatore abbia affermato di non aver creato un reato proprio bensì un reato comune per non criminalizzare le forze di polizia e per colpire anche realtà comuni (ad esempio i maltrattamenti nelle case di cura). Questo tuttavia comporta, da una parte, che si creino sostanziali sovrapposizioni con reati che già esistono; dall'altra si evidenzia da parte del legislatore la mancata conoscenza o ammissione del problema degli abusi da parte della forza pubblica, che significa mancanza di volontà politica di risolvere il problema.
La tortura del pubblico ufficiale DEVE essere una figura autonoma di reato. Come si fa a non capire che questo tipo di reato, in ossequio alla Costituzione ed alla Carta europea dei diritti dell'uomo, deve essere introdotto come fattispecie autonoma?
La magistratura non interviene perché ha un problema di rapporto con le forze di polizia. Non si tratta di connivenza, ma certamente la necessità di mantenere il rapporto con una forza che consente di applicare la legge. Quanto al legislatore, criminalizza l'omicidio stradale e la corruzione ma la tortura ancora no!
La Corte EDU ha lamentato anche che lo Stato italiano ha omesso di informare la Corte sui provvedimenti disciplinari (nei quali, peraltro, era stato contestato il fatto colposo!)
Per finire, nella legge in preparazione nulla si dice sull’obbligo di sospendere un pubblico ufficiale che sia rinviato a giudizio, nulla sul fatto che il reato di tortura debba essere imprescrittibile ed escluso da provvedimenti di amnistia e indulto. Perché?

Dopo una pausa la parola è passata ai parlamentari; è intervenuto l'on. Alfredo Bazoli, avvocato bresciano e membro della commissione giustizia della Camera dei Deputati, che ha spiegato l'iter formativo del disegno di legge, sottolineando che esso aveva preso avvio in tempi non sospetti, ed è soltanto una coincidenza che il DDL sia stato licenziato dalla Camera a pochi giorni di distanza dalla sentenza Cestaro. Bazoli si è detto certo che il tempo sia maturo per l’approvazione in via definitiva della legge ed ha illustrato le ragioni di quelle scelte che i precedenti relatori hanno sottoposto a censure critiche. In buona sostanza, il testo della legge è frutto di diverse concause e deriva da una discussione molto articolata, pervenuta ad un esito dettato sia dalle opinioni degli esperti che sono stati consultati, sia dalla necessità di trovare un compromesso tra le diverse forze politiche in campo ed, in particolare, tra le opinioni presenti in seno alla commissione. In ogni caso il testo licenziato si avvicina molto, secondo l’on. Bazoli, alla Convenzione ONU.

Subito dopo l'on. Bazoli ha preso la parola il sen. Sergio Lo Giudice, membro della commissione giustizia del Senato, cui è demandato ora l'esame del testo licenziato dalla Camera dei Deputati il 9 aprile.
Scopo ed interesse dell'azione di Lo Giudice è la predisposizione di una legge che ponga al centro della tutela il rispetto della dignità della persona, stante il fatto che i vari comportamenti lesivi della salute sono già tutelati dall'ordinamento. Inizialmente era propenso ad optare per la figura del reato proprio. L'incontro con Felice Casson, che sceglieva nel proprio disegno la figura del reato comune, in concomitanza con una stabilità politica tutta da valutare, lo ha invece convinto della maggiore possibilità di giungere a promulgare una legge che prevedesse la tortura come reato comune, con ipotesi di aggravante per la qualità di pubblico ufficiale del soggetto agente. Attualmente in commissione Giustizia pare manchi un consenso politico sufficiente a modificare il testo per renderlo maggiormente in linea con la Convenzione ONU. A questo punto quindi per il sen. Lo Guidice il testo andrebbe approvato così com’è, per evitare che si “impantani” nuovamente.

Al prof. avv. Giovanni Flora, componente della Giunta dell'Unione delle Camere Penali è toccato il compito di tirare le somme di quanto è emerso. Esordendo con una battuta, ha osservato che occorrerebbe fare come quell'anziana madre che suggeriva alla figlia ancora nubile: “meglio che nulla il marito vecchio”. “Sì, mamma”, rispondeva la figlia, “ma dev'essere ricco!”. Speriamo che il marito vecchio di questa norma sia un marito ricco…
Le Camere penali non vedono con favore, ovviamente, una produzione legislativa criminalizzatrice frammentaria e figlia della suggestione del momento, volendosi ricordare la pena certa, equa e pronta di beccariana memoria. Va detto che i media hanno trasformato l'opinione pubblica in un pubblico senza opinione. L'impegno all'introduzione del reato di tortura si impone come imperativo categorico giuridico e morale, senza bisogno che la sentenza Cestaro, prima di una futura lunga serie, ce lo ricordi.
Pacifico che l'introduzione del reato debba essere accompagnata da una oculata opera di prevenzione, non solo addestrando le forze dell'ordine, ma anche valorizzandone il ruolo; alle forze di polizia si deve far capire, peraltro, che il reato di tortura serve anche a tutelare la loro immagine e la sua introduzione è, dunque, anche nel loro interesse.
Si tratta di ritagliare caratteristiche che siano espressive del peculiare significato di disvalore del fatto, che sia impossibile da confondere con altri fatti di reato.
Occorre rigore nella formulazione: per forza deve essere un reato proprio, perché si tratta di una forma particolarmente vergognosa dell'abuso dello Stato nei confronti del cittadino inerme. Invertiamo idealmente l'ordine: prima il reato proprio, poi i fatti che ci somigliano, commessi da privati, che saranno puniti con una pena diversa.
A condotta libera o vincolata (violenza o minaccia)? Meglio a forma libera, centrando la fattispecie sul risultato, permettendo così la punizione dei comportamenti omissivi. A prescindere dalla previa instaurazione di un "rapporto" tra il pubblico ufficiale e vittima del reato.