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07-02-2017 18:50:10 Donne assassinate: l'ergastolo non è la soluzione

Il titolo sapiente, qualche giorno fa, richiamava l’attenzione dalle pagine di un quotidiano nazionale: “Donne assassinate, no delle femministe al carcere a vita”. Per una volta in controtendenza rispetto al dilagante giustizialismo dei media, le due giornaliste (donne) richiamavano nell’articolo le dichiarazioni di Titti Carrano, donna, avvocato (o, per chi preferisce, avvocata), presidente dell’Associazione Nazionale dei Centri Antiviolenza “Dire”, che definisce “inutile e dannosa” la recente proposta della deputata Pd (donna) Fabrizia Giuliani di modificare l’art. 577 del codice penale estendendo l’ergastolo a chi “uccide il coniuge o la persona cui è legato con unione civile o da rapporto affettivo o stabilmente convivente” (attualmente per chi uccide il coniuge è prevista la pena da ventiquattro a trent’anni di reclusione). Diverse sensibilità, evidentemente, a prescindere dalla comunanza di genere, su questo tema delicato e di preoccupante attualità.
I movimenti femministi, scopriamo, sono, e non da adesso, contrari ad un inasprimento delle pene, così come avevano bocciato senza appello il cosiddetto piano antiviolenza del governo Renzi e i famosi “codici rosa” nei pronto soccorso per le vittime di stupri e stalking.
Ma come? Le femministe contro le strategie di tutela delle donne? Sembra un paradosso, ma la risposta è sì, se l’unico contrasto alla violenza sulle donne che la politica pare in grado di concepire è quello puramente repressivo o puramente sanitario.
Non posso nascondere un moto di soddisfazione, e pazienza se mi si darà della femminista (appellativo forse un po’ polveroso che personalmente continuo a considerare un complimento), nel constatare che questa parte illuminata della società civile ha capito perfettamente che la prospettiva di una condanna alla pena perpetua non è e non sarà mai un deterrente per il maschio-proprietario, che ritiene di poter disporre dell’integrità fisica e finanche della vita della propria compagna o ex compagna, perché ha radicata in sé la mala pianta della violenza e del possesso.
Eppure.
Eppure Giulia Bongiorno (si legge nello stesso articolo), donna, avvocato, nota per difese eccellenti e per l’impegno a favore delle donne perseguitate e maltrattate (ha fondato l’associazione “Doppia difesa”), è convinta sostenitrice della necessità di punire con l’ergastolo chi uccide una donna: il reato merita la pena massima perché si agisce in base alla convinzione che la donna sia inferiore. Siamo oltre la proposta di modifica dell’art. 577 (che prescinderebbe dal sesso della vittima, rilevando unicamente il rapporto affettivo stabile): si invoca l’ergastolo a maggior tutela di uno dei due generi. L’ergastolo: proprio la pena infinita, che pone tanti dubbi di compatibilità con la Costituzione, interrogando le menti più attente e che vogliono mantenersi libere dai condizionamenti degli allarmismi mediatici.
Ma ancora prima mi chiedo: non c’è contraddizione nel voler ribadire la non inferiorità della donna, al contempo aggravando la pena per il reato commesso contro di lei, considerandola … inferiore, più debole?
E c’è ancora bisogno di ricordare che non vi è alcun effetto deterrente associato all’inasprimento delle pene? Anche di recente Adolfo Ceretti e Roberto Cornelli, professori di criminologia dell'Università Bicocca di Milano, incrociando per la Rivista italiana di diritto penale uno studio sugli omicidi nel mondo con ricerche svolte in passato, mostrano come gli alti tassi di incarcerazione e il livello di severità delle punizioni siano o quasi irrilevanti o addirittura associati ad un aumento dei tassi di violenza letale.
Ciò che, però, lascia maggiormente sconcertati è la ragione, per così dire, tecnica della posizione dell’avv. Bongiorno: «oggi le aggravanti contenute nel codice penale sono discrezionali» [il riferimento, immagino, è alla premeditazione, che fa scattare l’ergastolo, n.d.r.]; «invece devono essere previste dalla legge. Non possiamo più affidarci alla decisione di questo o quel giudice». Non solo: l’ergastolo porterebbe finalmente alla certezza della pena. «Se prevediamo il massimo, riusciremo ad avere condanne congrue ed evitare al colpevole scappatoie legali».
Le parole sono pietre, diceva Carlo Levi.
Queste parole, riportate in virgolettato nell’articolo, sono di più: sono una frana che travolge principi basilari del nostro ordinamento. La Corte Costituzionale ha più e più volte ribadito che le presunzioni assolute, specie quando limitano diritti fondamentali della persona, violano il principio di eguaglianza se sono arbitrarie e irrazionali, cioè se non rispondono a dati di esperienza generalizzati. Nonostante la violenza di genere costituisca fenomeno reale e allarmante, appare arduo ipotizzare che sempre, quando viene uccisa una donna, alla base vi sia quella “sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale che ha lo scopo di perpetuare la subordinazione e di annientare l'identità attraverso l'assoggettamento fisico o psicologico, fino alla schiavitù o alla morte" (questa la definizione riconosciuta di violenza di genere).
Sottrarre al giudice la valutazione del fatto concreto, di quell’episodio, di quell’uccisione, imponendo la condanna all’ergastolo sempre, quando un uomo uccide la compagna o la ex? Mi pare del tutto arbitrario e irragionevole. Mi pare espressione di quel fenomeno definito dalla locuzione populismo penale, tanto in voga di questi tempi, così ben descritto dal Prof. Fiandaca in un suo recente intervento: «in generale può parlarsi di populismo penale in tutti i casi, in cui i politici assecondano la tentazione di creare nuovi reati o inasprire reati preesistenti allo scopo di dimostrare alla gente di volere combattere sul serio e in modo drastico i diversi mali che affliggono la società. Insomma, la risposta punitiva rappresenta uno strumento non solo apparentemente risolutore proprio perché energico, ma anche molto comunicativo perché semplice, facilmente comprensibile da tutti nella sua elementare simbologia; inoltre, essa canalizza pulsioni vendicative e sentimenti di indignazione morale diffusi a livello popolare e, ancora, esime la politica dalla ricerca di strategie di intervento più costose e tecnicamente più appropriate».
Perché è proprio questo il punto: la violenza di genere non si combatte inasprendo le pene, così come è stato del tutto inutile, i dati lo confermano, introdurre il reato di omicidio stradale per risolvere il problema degli incidenti mortali. Oltre che garantendo tutela e giustizia alle donne vittime, una volta partita la denuncia, il male sociale della violenza sulle donne si può iniziare a curare, innanzitutto, educando gli uomini, e prima ancora i bambini (e le bambine), con programmi mirati e interventi di carattere culturale e sociale, sin dai primi gradi della scuola.
E quando la violenza si è ormai consumata, come purtroppo capita con frequenza e non ci viene risparmiato dai media, giustamente ma talvolta con enfasi che toglie spazio alla riflessione ed alla ricerca di possibili rimedi, la soluzione non sarà mai “buttare via la chiave”. Quelle che l’avv. Bongiorno chiama, sorprendentemente “scappatoie legali”, sono in realtà gli strumenti previsti dall’ordinamento sia per adeguare l’entità della pena alla concreta gravità del fatto (circostanze attenuanti), come previsto dal codice penale, al fine di garantirne la funzione rieducativa imposta dalla Costituzione, sia per consentire al condannato un graduale recupero alla società (misure alternative al carcere). Senza trascurare la frontiera nuova e, per ora, poco esplorata della giustizia riparativa, che mettendo a confronto vittima e autore del reato al di fuori del meccanismo processuale (che ovviamente deve fare il suo corso), sarebbe in grado di riparare, nei limiti del possibile, la lacerazione causata dal reato, consentendo (anche) il riequilibrio dei rapporti tra i generi.
Ogni volta che, sfogliando le pagine di un quotidiano, leggiamo dell’ennesima morte di una donna per mano di un uomo, del suo sfregio con l’acido o della distruzione della sua dignità attraverso i perversi meccanismi del web, noi donne, tutte e senza distinzioni credo, proviamo un moto di rabbia infinita e un brivido orrendo, come per l’alito di un acido vicino alla pelle. Ma noi donne che abbiamo scelto questa professione abbiamo il dovere di contribuire all’esito (non importa quale) di un processo giusto, che conduca, se del caso, all’irrogazione di una pena giusta, esercitando il massimo rigore nella pretesa del rispetto delle regole qualunque sia il nostro ruolo, avvocato della vittima o del reo. Avendo sempre presente, come ci ricorda il collega Renzo Nardin nella bella nota pubblicata il 4 febbraio scorso su questo sito, «il significato “politico” dell’ufficio della difesa, inteso come fondamentale valore dialettico-democratico riconosciuto al cittadino, non disgiunto dalla riflessione costante sulla “funzione pubblica” svolta dall’avvocato, difensore di diritti e valori consacrati nel “giusto processo”, e, in ultima analisi, difensore della stessa democrazia».

avv. Stefania Amato