I vostri Contributi

01-08-2023 08:37:51 A TALE OF TWO PRISONS (rilfessioni di Stefania Amato sulla visita alle carceri di Brescia e Bergamo con i rappresentanti di "Nessuno tocchi Caino")

“Era il tempo migliore e il tempo peggiore, la stagione della saggezza e la stagione della follia, l’epoca della fede e l’epoca dell’incredulità; il periodo della luce, e il periodo delle tenebre, la primavera della speranza e l’inverno della disperazione”.
(Charles Dickens, A tale of two cities, 1859)


Alla fine di un luglio rovente, insieme a Nessuno Tocchi Caino, la CP della Lombardia Orientale “Giuseppe Frigo” è entrata, con una delegazione di iscritti, in due delle carceri del nostro distretto: venerdì 28 luglio Brescia Canton Mombello, sabato 29 Bergamo; due case circondariali che, come ben noto, ospitano però anche molti (troppi) detenuti in esecuzione pena.
Brescia e Bergamo: quest’anno unite dal titolo di “Capitale della cultura”; purtroppo, da lungo tempo, accomunate dalle condizioni critiche delle rispettive carceri.
Proviamo ad abbozzare questo racconto di due prigioni, cui fanno da sfondo non il tumulto rivoluzionario e le sperequazioni sociali della Parigi e della Londra dickensiane, ma il fitto tessuto industriale, la forza economica e la capacità propulsiva di uno dei territori più ricchi d’Italia, dove politiche di solidarietà sociale, lavoro e sviluppo non mancano. Dentro le carceri, invece, povertà e disperazione; sforzi enormi di una comunità – quella che lavora in carcere cercando di adempiere nel miglior modo al proprio mandato rieducativo – motivata e impegnata, spesso ben al di là dello stretto dovuto, con attenzione e dedizione a tratti commoventi. Le due garanti, Luisa Ravagnani a Brescia e Valentina Lanfranchi a Bergamo, sono presenti assiduamente, vigilano e denunciano i problemi, ma a fronte dei numeri, delle carenze strutturali e delle difficoltà oggettive, è come cercare di svuotare il mare con un secchio.
“Il viaggio della speranza: visitare i carcerati”, questo il nome dell’iniziativa di NTC, in collaborazione con l’Osservatorio Carcere dell’UCPI e con le camere penali territoriali. Andare a vedere, toccare con mano, parlare con le persone recluse ma anche con la polizia penitenziaria, con gli educatori, con i medici, con i direttori, con i garanti, per rendersi conto di quali siano le condizioni di detenzione nel 2023 in Italia.
Siamo entrati nei nostri due istituti più significativi per i numeri (ma il progetto è di visitare in futuro anche Cremona e Mantova), accolti con grande disponibilità dalla dottoressa Teresa Mazzotta, direttrice di Bergamo “applicata” anche per la visita a Brescia; lo abbiamo fatto coinvolgendo i magistrati, soprattutto della cognizione: in sei hanno voluto venire con noi. L’Ordine degli Avvocati di Brescia non ha fatto mancare la propria presenza e si è mossa la politica, con l’amministrazione comunale presente alla visita bresciana, e alla successiva conferenza, con il Presidente del consiglio comunale Roberto Rossini. Ci ha raggiunti anche il senatore Alfredo Bazoli. Il mattino della visita a Bergamo campeggiava sulle pagine de La Stampa un intervento sul tema del carcere del sindaco Giorgio Gori, cha ha più volte visitato l’istituto.
La domanda è se i cittadini di queste due città così fortunate, tirate a lucido e al centro dell’attenzione, finalmente per motivi lusinghieri dopo la tragica epoca del COVID, si rendano conto di quello che accade dentro quelle mura, a pochi passi dalle loro case.
I numeri: 335 detenuti presenti a Brescia, a fronte di 189 posti regolamentari (capienza “tollerabile” 291); 523 i detenuti di Bergamo, mentre la capienza regolamentare è di 319: due carceri che scoppiano. E non consola il pensiero che, prima della sentenza Torreggiani della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (2013), la situazione fosse molto peggiore: è semplicemente impossibile capacitarsi, vedendo oggi le camere di pernottamento, di una presenza quasi doppia di detenuti, che pure si è registrata in passato.
Le persone affollano camere piccole e male illuminate, la “doccia in ogni camera” finalmente installata a Brescia, consiste in un soffione appeso sopra il cesso alla turca, separato dalla cucina da una traballante lastra di plastica. A Bergamo molte delle sezioni hanno docce in comune: 4 per una quarantina di persone, ma in una delle sezioni che abbiamo visitato i detenuti ci dicono che due non sono funzionanti. Difficile dire cosa sia meglio.
Tanti ragazzi giovani e giovanissimi, moltissimi stranieri: le nazioni maggiormente rappresentate sono Marocco, Albania, Senegal, Romania, Tunisia.
C’è voglia di parlare, di sfogarsi con gli occasionali visitatori: richieste su un imminente indulto di cui si vocifera (corre l’obbligo di raffreddare le illusioni), lamentele sul vitto, molte segnalazioni di ritardi nel riscontrare le chiamate per l’infermeria. Ma i responsabili sanitari ci spiegano che è difficile garantire l’efficienza del servizio medico nella situazione in cui si trova la sanità penitenziaria lombarda. La presenza in carcere di almeno un medico è assicurata H24, ma i professionisti sono pochi, per la maggior parte in regime di libera professione (a differenza degli infermieri, che sono dipendenti delle aziende ospedaliere e dunque precettabili al bisogno) e non è possibile per i giovani medici, spesso animati da passione e motivazione, continuare a lavorare in carcere una volta entrati nelle scuole di specialità, per una incompatibilità prevista a livello legislativo, difficilmente comprensibile (i turni di guardia medica, invece, li possono fare: perché?).
Spesso le storie parlano di scarcerazioni, per concessione di arresti domiciliari o di misure alternative, ma di reingressi dopo la violazione delle prescrizioni o dopo liti domestiche; spesso le pene da espiare sono brevi, o molto brevi e il problema è che non c’è una casa, non c’è nessuno fuori: solitudine e povertà.
Molti sguardi fissi e vuoti, persone che dormono per ore anche durante il giorno, frasi biascicate: è l’effetto dei farmaci. Questo è uno dei problemi più seri. In carcere (non solo a Brescia e Bergamo: è un fenomeno generalizzato) si fa un uso massiccio di ansiolitici, antidepressivi e altri farmaci (per indurre il sonno, per esempio) che i detenuti chiedono con insistenza sviluppando vere e proprie dipendenze e attivando una sorta di mercato sommerso che utilizza i farmaci consegnati dal personale, e non assunti, come strumenti di pagamento (pastiglie per un paio di scarpe).
La percentuale di detenuti tossicodipendenti è già spaventosamente alta (a Bergamo sono più di 300) e più del 60% di questi presenta anche disturbi di personalità o più gravi patologie psichiatriche. È evidente che, sebbene nell’attualità non vi siano detenuti in attesa di ricovero in REMS, la grande maggioranza delle persone non dovrebbe stare lì, trattandosi di soggetti che hanno bisogno di assistenza e di cure. Spesso, peraltro, la gestione quotidiana di queste persone è difficilissima per gli operatori della polizia penitenziaria, ma anche per il personale sanitario. A Bergamo abbiamo parlato con un detenuto che insisteva per consegnarci un plico di documenti medici e ci è stato detto che, pur trattandosi di un soggetto per cui non vi è alcuna diagnosi di tipo psichiatrico, egli va ripetendo continuamente di essere morto e poi reincarnato, dunque di non essere lui la persona che ha commesso il reato. Per questo pretende la scarcerazione ed ha spesso agìti violenti. A Brescia un detenuto, attualmente in isolamento, non lascia avvicinare nessuno alla camera di pernottamento, ha dato fuoco al materasso e quando il personale di polizia penitenziaria gliene ha offerto uno nuovo lo ha rifiutato; aggredisce chiunque si avvicini, anche solo per pulire. Moltissimi sono gli atti di autolesionismo: i detenuti si provocano tagli, abbiamo visto ragazzi, anche molto giovani, con le braccia devastate. frequenti gli atti di aggressione nei confronti della polizia penitenziaria.
In questo inferno, nonostante tutto, uno sparuto (perché non è possibile definirlo altrimenti) gruppo di educatori cerca di portare avanti, giorno dopo giorno, l’attività trattamentale. L’organico è coperto al 50%, per cui vi sono a Brescia 3 funzionari giuridico-pedagogici oltre al capo area (che si occupa, da solo, anche della casa di reclusione di Verziano); 5, più il capo area, a Bergamo. Considerato che a Brescia vi sono 209 detenuti con posizione definitiva, e a Bergamo 416, significa che un singolo educatore ha in carico circa 70 detenuti, che dovrebbe quotidianamente “osservare”, proponendo attività trattamentali, il cui contesto socio-familiare dovrebbe conoscere e le cui potenzialità di recupero dovrebbe valorizzare attraverso lo studio, il lavoro e ogni altra attività utile.
Ma la possibilità di lavorare all’interno dei due istituti è molto limitata: in media si parla di 2/3 mesi all’anno per il singolo detenuto, con un sistema di turnazione. Vi è qualche corso scolastico e a Bergamo è stato recentemente istituito il polo universitario penitenziario; la presenza del volontariato consente attività di svago e culturali, ma è evidente che tutto, in una situazione in cui è lo spazio fisico a mancare e le camere sono fatiscenti (soprattutto a Brescia), assume il sapore amaro del palliativo.
Se poi pensiamo all’affanno della magistratura di sorveglianza, il cui carico di lavoro non consente – come ci ha raccontato con rammarico la dott.ssa Monica Lazzaroni a margine della visita bresciana – quella fondamentale attività di colloquio con i detenuti affinché il magistrato conosca davvero la persona la cui vita si trova nelle mani, si completa il quadro di cronica emergenza che da troppo tempo siamo costretti a denunciare.