I vostri Contributi

12-11-2018 22:56:40 Riflessioni di Valeria Cominotti dopo la visita al carcere di Gorgona organizzata dalla Camera Penale di Livorno

Isola di Gorgona, 15 settembre 2018


Un monte sull’acqua, scavato da un fiordo in cui è incastonato il vecchio borgo con il suo porticciolo. Questa è l’immagine che si delinea arrivando da Livorno, un’immagine contornata da una generosa vegetazione mediterranea di mirti, clematidi, bignonie, e poi lecci, pini marittimi, che tutta l’isola avvolgono e ricoprono.
E’ la Gorgona, un’isola che emerge da un mare baluginante di colori; un’isola che appartiene all’arcipelago, ma che è, nello stesso tempo, frazione della città di Livorno, una sua propaggine in mezzo al mare.
E su questa propaggine trovò attuazione il cd. “modello Gorgona”, un carcere nel quale le interrelazioni tra mondo animale e vegetale hanno costituito lo snodo sul quale si sono elaborati i programmi di trattamento, fondati sul concetto di cura e di accudimento, sulla tessitura di relazioni che richiedono l’impegno costante di ogni persona, senza un immediato e certo riscontro.

Grazie all’iniziativa della Camera Penale di Livorno, si è avuta l’occasione, non comune, di approdare sull’isola e visitare il carcere, costituito da una serie di edifici e dai terreni circostanti nei quali i detenuti ammessi al lavoro possono recarsi. Abbiamo potuto accedere ai vari allevamenti che insistono sull’isola e nei quali svolgono il loro lavoro i detenuti: allevamenti di capre, di pecore, di mucche, di conigli e di maiali; ad essi si affiancano il piccolo caseificio ed il forno per la cottura del pane necessario alla struttura; ed, ancora, vi sono gli orti, curati dai detenuti, ed il vigneto in cui, grazie all’accordo con una nota cantina vitivinicola, trova impiego una decina di detenuti.
Abbiamo avuto la possibilità di visitare anche gli spazi riservati ai detenuti, i quali hanno stanze condivise ed un refettorio nel quale consumare i pasti (autentica rarità, sebbene l’art. 13, comma 3 Reg. 30 giugno 2000, nr. 230 lo preveda “di regola” per tutti gli istituti).

Quando fu pubblicato “I giorni scontati”, il dr. Marco Verdone, allora veterinario sull’isola, scrisse nel suo contributo: “E’ indubbio che lavorare costituisca il miglior modo per impiegare le energie in un carcere e Gorgona offre l’opportunità di spendere questo tempo in un ambiente gradevole e socialmente sereno. Terra, piante ed animali – inscritti in un ecosistema naturale di grande valore- rappresentano la colonna portante di questa realtà e le relative attività sono concentrate in una sezione chiamata Agricola. Lavorare con i beni primari (terra, vegetali, animali) vuol dire svolgere una vera terapia sociale. SI cura l’uomo attraverso la cura dei tre regni viventi, ponendolo in rapporto con le leggi fondamentali della natura. Ciò richiede impegno e attenzione costante, pazienza e rispetto dei tempi biologici di ogni essere allevato o coltivato. Nel frattempo si impara, si acquista fiducia nelle proprie capacità e lo spirito si apre alla meraviglia e alla riconoscenza. Gradualmente si pongono i presupposti per cambiare e avvicinarsi all’origine delle cose” (AA.VV., I giorni scontati, Teti Editore, p. 155)

Pur non avendolo riletto, sono andata alla Gorgona con il ricordo che ancora avevo di un testo dal quale proveniva, sotto vari profili, un invito a meditare il senso della sanzione della reclusione e le condizioni perché essa persegua la funzione che la Costituzione richiede per la pena, nonché a riflettere sull’istituto penitenziario, che, sorto come luogo della comunità (come lo sono la scuola, il municipio, la piazza, la chiesa) , è stato via via allontanato dai luoghi visibili per diventare un non-luogo, con il quale la comunità dei “civili” non è più costretta a fare i conti, se non altro perché non lo vede.

E alla Gorgona tasti con mano quanto possano pesare, nella vita e nel percorso degli uomini, i luoghi: un luogo splendido, che racchiude la forza e la potenza della natura e che è risorsa, ma, nello stesso tempo, anche limite per l’uomo; un luogo, però, nel quale le strutture destinate ai detenuti presentano i segni di una vetustà che intristisce l’osservatore. Attraversando i luoghi della comunità, invero, si osservano alcuni dei suoi membri sospesi in un non fare che è dovuto all’impossibilità di impiegare tutti i detenuti nell’attività lavorativa. Da questo punto di vista, la proporzione alla Gorgona è via via peggiorata negli ultimi anni, per quanto sia un quadro nettamente migliore di quello che si ricava dalle restanti carceri d’Italia, dove il numero dei detenuti ammesso al lavoro è una percentuale molto inferiore.

E da osservatore è inevitabile domandarsi, più in generale, quale percorso possa compiere l’uomo che vive in strutture particolarmente obsolete, senza poter essere coinvolto in un progetto e che nemmeno può impegnarsi in un miglioramento della struttura, perché tale impegno costituirebbe un “lavoro” che l’Amministrazione dovrebbe retribuire, senza averne i fondi.
E l’osservatore, membro della società civile, si domanda se si possa accettare una condizione quale quella che si registra nelle carceri e che è inevitabilmente foriera di un abbruttimento dell’uomo, di un suo inevitabile peggioramento, non foss’altro perché il disinteresse e la trascuratezza che si possono percepire nei luoghi di restrizione rischiamo di essere ciò che viene percepito e trattenuto da colui che la restrizione subisce.
Da cittadina ho concluso che non posso rendermi corresponsabile dell’abbruttimento di un individuo; da cittadina ho pensato che nessuna ferita inferta da un condannato alla società e ai suoi membri renda giusta una risposta quando rechi in sé un’unica radice: quella della retribuzione che, tuttavia, nella misura in cui perde la capacità di offrire una possibilità di miglioramento, è inevitabilmente improntata ad una punizione che evoca la vendetta.
Se questo ho pensato da cittadina, da avvocato ho pensato che un sistema giuridico degno di questo nome, vale a dire informato ai principi che abbiamo elaborato nei millenni della storia umana, non può trattare indegnamente un uomo, qualsiasi sia la sua storia di individuo; da avvocato, ho pensato che, per ogni detenuto ed imputato che assistiamo, noi avvocati dobbiamo chiederci ogni volta cosa fare per verificare che, all’interno dell’ordinamento e nei percorsi che l’ordinamento prevede e che noi avvocati contribuiamo a segnare, si stia dando concretezza ai principi fondamentali; da avvocato, ho pensato che il problema della pena e della sua esecuzione sono un tutt’uno: perché ogni volta che viene pronunciata una sentenza di condanna alla reclusione, è una sentenza di condanna ad una pena che viene inflitta in condizioni perlopiù di tale indegnità e disumanizzazione da renderla contrastante con quegli stessi principi che fondano il processo stesso, minandolo al suo fondamento sin dal suo inizio.
Da avvocati, quindi, non possiamo esimerci dal riflettere sul senso di un percorso, quale il processo, che rischia di concludersi con un trattamento che non rispetta la dignità di ogni uomo ed è quindi testimonianza nociva per la società; così come un medico non può scegliere un trattamento che, per le modalità che lo connotano, sia, nelle migliori delle ipotesi, privo di valenza terapeutica.

Il convegno pomeridiano, peraltro, ci ha offerto significativi elementi per progredire nella riflessione, senza rassegnarsi ad una condizione di mero scoramento.
Il dott. Bortolato, Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze, pur nell’amarezza per la vanificazione di un esito legislativo degli Stati Generali dell’esecuzione penale, ha non solo invitato a mantenere saldi e fermi gli approdi cui, anche in via giurisprudenziale, si è pervenuti, ma ha offerto materiale per una riflessione sul trattamento penitenziario.
Il dott. Bortolato ha, innanzitutto, rimarcato la scarsa utilità sociale di un atteggiamento di ostracizzazione del possibile nemico (lo straniero, il condannato) , che rischia di pervadere la società di atteggiamenti bellicosi, ma poco costruttivi. In particolare, il dott. Bortolato ha invitato a riflettere su quanto un atteggiamento di “responsabilizzazione” possa aiutare nella prospettiva di riparare una lacerazione sociale che è derivata dalla commissione del reato e che, come tale, non potrà essere cancellata in un innaturale e, come tale, irrealizzabile ripristino della situazione quo ante.
In questa prospettiva, si è evidenziato come un percorso improntato alla responsabilizzazione non si limiti all’astratto riferimento al principio di “rieducazione” di cui all’art. 27 Cost. , ma trovi il fondamento nell’art. 3 Cost.: se, infatti, l’art. 27 Cost. offre la direzione dal punto di vista generale ed astratto del sistema, l’art. 3 Cost. consente di dare contenuto all’azione in sede esecutiva, poiché essa dovrebbe tendere a “rimuovere gli ostacoli” che impediscono lo sviluppo (e, per l’effetto, la rieducazione) di una persona.
In un recente saggio, il giudice costituzionale Marta Cartabia, in seno ad una riflessione sulle caratteristiche della “giustizia”, che si trasforma in ingiustizia quando nasce dalla caparbia affermazione di una “giustizia senza limite, inconsapevole della propria finitezza: o, meglio, inconsapevole della strutturale eccedenza dell’esigenza di giustizia rispetto alle possibilità di realizzazione umane” (Cartabia-Violante, Giustizia e mito, Il Mulino, p. 50), indica nell’imperfezione la caratteristica strutturale della giustizia, che non deve mai rimuovere dal proprio orizzonte la ferita da cui essa muove (il senso di giustizia nasce da una esperienza di ingiustizia), una “ferita non rimarginabile, questa apertura incompiuta, che lungi dall’offuscarne il valore, ne ridetermina la forma, la fisionomia, la riconfigura, la plasma, la rimodula in un processo inesauribile”. Prosegue il giudice costituzionale scrivendo: “La giustizia come aspirazione inestinguibile innesca allora un cammino, apre un processo, un movimento, un dinamismo, una evoluzione. Ed è rivolta al futuro: alle ulteriori vie da percorrere” (Cartabia-Violante, Cit., p. 54-55). Ancora, la giustizia è imperfetta “perché consapevole che la giustizia nelle vicende umane è una meta sempre da raggiungere. Imperfetta come una figura geometrica ferita da una breccia: la Sfera con sfera di Giò Pomodoro…Imperfetta di quella imperfezione che non deriva da incuria, trascuratezza, mancanza intenzionale, faziosità o addirittura disonestà, quanto piuttosto dalla consapevolezza dell’intrinseca incapacità dell’uomo di raggiungere la pienezza e il compimento delle sue aspirazioni. Imperfetta di quella imperfezione che non è debolezza, ma piuttosto espressione di un’ultima modestia che si apre a qualcosa d’altro da sé e in questa faglia trova tutta la sua forza…”. Emerge dal testo, quindi, l’idea di una giustizia che si realizza attraverso un processo, un dinamismo che conduce da una situazione ad un’altra, che dalla prima deriva: la frattura non si ricompone senza traccia, ma la frattura può diventare occasione per una nuova situazione, espressione di fiducia e miglioramento.

Il processo che si ispiri all’idea di giustizia, quindi, non si interrompe certo quando ha inizio la fase di esecuzione vera e propria ed, anzi, anche quella fase deve essere innervata dalla giustizia, perché è nella fase esecutiva che si tocca con mano quanto si stia agendo all’insegna della giustizia e quanto, invece, si dia sfogo e riconoscimento a obiettivi di altro genere e quanto, quindi, si strumentalizzi una vicenda per soddisfare bisogni e urgenze sociali di altro tipo. Non è un caso, del resto, che i giudice della Corte Costituzionale abbiano avviato quell’iniziativa del tutto inusuale, che è il viaggio nelle carceri, nelle quali dovrebbero calarsi ed attuarsi quei principi che la Corte Costituzionale sancisce e presidia.


Se in ciò ci riconosciamo, proprio il principio di responsabilizzazione può proficuamente informare quell’ulteriore snodo del processo che è la fase esecutiva ed esso dovrà riguardare ogni soggetto coinvolto nella fase esecutiva. In questa prospettiva, il dott. Bortolato ha evidenziato come la trasparenza all’interno del carcere costituisca un requisito da perseguire; ne consegue l’indispensabilità della adozione (e pubblicazione, aggiungo io) di un regolamento all’interno della struttura, approvato dal Ministro della Giustizia, così come sancito dall’art. 16 L. 354/1975; ne consegue la necessità che noi avvocati dobbiamo conoscere ed utilizzare tutti gli strumenti previsti dall’ordinamento per assicurare l’individualità e l’effettività di un piano di trattamento del detenuto che sia informato alla responsabilizzazione; l’art. 35 bis L. 354/1975, introdotto dal D. L. 146/2013, convertito nella Legge 10/2014, è stato indicato dal dott. Bortolato come uno strumento di valenza effettiva e concreta, posto che esso prevede il reclamo concernente “l’inosservanza da parte dell’amministrazione di disposizioni previste dalla presente legge e dal relativo regolamento, dalla quale derivi al detenuto o internato un attuale e grave pregiudizio all’esercizio dei diritti” (art. 69, comma 6 lett. b) L. 354/1975), con la possibilità di pervenire all’ottemperanza a mezzo di un commissario ad acta.
Nel solco di tale riflessione si sono inseriti gli interventi dei vari relatori, tra i quali mi ha colpito, in particolare, quello del collega, avv. Michele Passione, che ha avuto modo di ricordare l’importanza per noi avvocati di conoscere il Regolamento della L. 354/1975, che disciplina “l’ordinamento penitenziario e le misure privative e limitative della liberà personale” e, per l’effetto, costituisce la base sulla quale fondare quelle doglianze, informate al principio di responsabilizzazione, che potrebbero consentire a ciascun difensore di impegnarsi affinchè la risposta dell’ordinamento alla commissione del reato non sia fine a se stessa (e come o inutile o dannosa), ma rispetti la dignità di ogni uomo e si incentri, pertanto, sulla “risposta” che ciascuno dei soggetti coinvolti dà con il proprio apporto.
La responsabilizzazione, nella misura in cui riguarda (ed è, quindi, pretesa da) ogni attore del processum giudiziario, in ogni sua evoluzione, è principio che può consentire anche a ciascuno di noi avvocati di essere parte attiva e positiva di un percorso che, dopo la lacerazione del delitto, apra uno scenario di crescita e miglioramento.