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18-07-2018 12:36:47 Pianosa: le parole che vivono

I giorni trascorsi a Pianosa, le molte cose fatte, sono ben raccontati e documentati dal resoconto di Elena Giacomelli o dalle fotografie, che pure si trovano sulla pagina della nostra camera penale.
Non c’è, quindi, molto altro da aggiungere.
Nel corso, poi, della cena dell’altra sera anche Veronica Zanotti ha ricordato i momenti salienti ed intensi della trasferta sull’isola.
Mi limito (me lo ha chiesto il presidente !!) a condividere, pertanto, una riflessione maturata in quei giorni.

Avevo letto da poco un intervento di Francesco Petrelli attorno alla perdita di senso e di significato delle parole.
In questo momento storico-politico le parole appena pronunciate, ma anche le parole appena scritte svaniscono e perdono il loro significato, sommerse da un continuo ed inesorabile flusso di altre parole.
E la parola giustizia rischia di essere, anzi è la prima vittima di questo meccanismo.

A Pianosa le parole, soprattutto quelle che riguardano la giustizia, non svaniscono; pronunciate stanno lì, hanno una fisicità, acquistano un corpo, con il quale non è possibile non confrontarsi costantemente.
Abbiamo, infatti, parlato e sentito parlare, grazie anche agli interventi di Valentina Alberta e Rachele Nicolin, di ordinamento penitenziario, di riforma e controriforma, di misure alternative, di trattamento, di misure premiali, di flessibilità della pena, di risocializzazione, di principi costituzionali e contemporaneamente eravamo immersi e circondati da queste parole in atto. Attorno a noi i detenuti in articolo 21, lavoravano, gestivano i loro movimenti, si prendevano momenti di riposo. Abbiamo mangiato anche dei frutti del loro lavoro.
Abbiamo parlato e sentito raccontare del 41 bis, contemporaneamente, però, ci venivano aperte (per la prima volta a degli avvocati) le celle della sezione Agrippa, quelle di isolamento e qualcuno tra noi un poco più intraprendente scorgeva i resti anche delle c.d. celle nude.
Bisogna entrarci in un parlatorio da 41 bis. Bisogna leggere una nota polverosa lasciata per qualcuno del turno successivo in cui si rinviano le visite mediche o i già pochi colloqui con i famigliari al mese successivo, perché quel giorno il mare era mosso.
E pietre sono state le parole, in quei luoghi, degli uomini della polizia penitenziaria; di chi ha fatto quasi trenta anni di alta sicurezza, di chi è stato indurito ed incattivito da un lavoro atroce; altre vittime della disumanità del 41 bis.
Abbiamo, fortunatamente, sentito anche le parole di chi, magari con altrettanti anni di quel lavoro, crede nel progetto di Pianosa e abbiamo intuito cosa può voler dire, per la polizia penitenziaria, fare osservazione: ossia impedire che tra detenuti si creino gruppi su base etnica, magari sedendosi a cena con loro; oppure non far venir mai meno la propria autorevolezza piuttosto che la mera autorità; ancora contenere le spigolosità, gli sconforti, gli abissi di solitudine di persone che spesso hanno usato e che conoscono la violenza.

Ecco le parole a Pianosa, mentre vengono pronunciate, sono lì nella loro sostanza e, quindi, inequivocabili.

Ed è curioso che, mentre lì a Pianosa le parole acquistano un corpo, le cose che sempre lì a Pianosa un corpo ce l’hanno lo perdono.
L’isola, il paese, le strutture della colonia agricola, l’alta sicurezza, tutto si sta sgretolando.
Si consuma quello che c’è di bello (il porto, la villa dell’agronomo, la chiesa, le cantine, il castelletto moresco), perché fatto di ciò di cui è fatta l’isola, ossia conchiglie e sabbia.
E più velocemente ancora si consuma quello che è brutto, ancorché fatto di cemento armato (la sezione Agrippa appunto ed il muro, questo muro che è tanto più inquietante quanto più si pensa alla sua inutilità pratica).

Ma le parole, a Pianosa, sono preziose soprattutto per i detenuti e lo sono per il loro significato.
Federico Letinic mi ha passato un piccolo libro di poesie scritto ed editato con cura da uno dei detenuti di Pianosa, Raschid Khamassi, che trova riscatto in una lingua straniera che solo in carcere è diventata sua e che, guarda caso, intitola una poesia “il seme della parola”, che, ancor ancor più significativamente, così si chiude:
“…Essa [la parola] si distacca dal significato originario,
il quale vi rimane dentro
come in un angolo segreto
intorno a cui si affollano genti nuovissime e irriguardose.
Talvolta riemerge,
e ancora fa sentire
la propria forza vincolante.”

Il che, di questi tempi e per chi come noi vive di parole, mi è parso di buon auspicio lasciando Pianosa.

Alessandro Magoni